La Fondazione protagonista a una conferenza nei Balcani.... (Leggi tutto)
«Non voglio essere trattato da malato!»: così Massimo, al suo ingresso nell’hospice del Centro “S. Maria alla Pineta” di Marina di Massa, aveva chiesto di essere accolto. Non una richiesta formale, ma il segno di un bisogno profondo: essere riconosciuto come persona, non ridotto alla sua malattia.
Da quel momento – e fino all’ultimo - ha voluto un dialogo aperto con gli operatori. Non si è tirato indietro, ha raccontato la sua vita senza filtri, con sincerità e forza, mettendo insieme i pezzi di un’esistenza fatta di fatica, solitudine, ostacoli, ma anche di conquiste interiori, ironia e consapevolezza.
La sua storia inizia in una famiglia numerosa, dove sin da piccolo si era trovato ad accompagnare la nonna nei luoghi del dolore - funerali, ospedali - osservando e assimilando. Quella frequentazione precoce con la sofferenza lo aveva reso sensibile, attento agli altri. Crescendo, aveva cercato la sua indipendenza, anche a costo della solitudine: «Se sai fare tutto e sei indipendente, vivi più tranquillo. Non si sa mai cosa può succedere nella vita».
Aveva lavorato fin da ragazzino, prima come commesso in farmacia, poi in segheria, da saldatore, elettricista: «Ho sempre lavorato per vivere, non per passione». La sua era una vita concreta, dura, in cui le relazioni spesso lasciavano delusioni. Ma nel tempo, grazie anche a viaggi, incontri, cambiamenti, aveva imparato ad avere più cura di sé, ad ascoltarsi, ad accettare di più.
La malattia arriva nel 2019, improvvisa e violenta: un ricovero d’urgenza, la terapia intensiva, la fatica di respirare, l’imbarazzo della dipendenza dagli altri, la perdita delle forze. «Ero come un neonato, col pannolone, e mi dicevo: “Dai Max, c’è sempre di peggio”». Da lì, un lungo percorso tra reparti, riabilitazioni, sofferenze, progressi e ricadute. Sempre con un tratto distintivo: la capacità di scherzare, di sdrammatizzare, di trasformare il dolore in sorriso.
Poi, nel 2024, la diagnosi definitiva: tumore polmonare in fase avanzata. Massimo l’aveva accolta senza rabbia, con una lucidità disarmante. «Al momento rimani spiazzato. Poi ti riassesti. Mi affido ai medici, non sottovaluto niente. Combatto». Aveva così sempre mantenuto una visione concreta della malattia: fare ciò che si può, un giorno alla volta, ascoltarsi, adattarsi.
L’ingresso nell’hospice (nelle foto qui sopra l'équipe e alcuni scorci) ha segnato un passaggio delicato, ma Massimo lo ha affrontato con lo stesso spirito. «Qua sto benissimo. Tutti ti dicono il loro nome. E io continuo a ridere, scherzare, parlare con tutti».
Aveva imparato che la sofferenza è diversa dal dolore: «Il dolore lo controlli, la sofferenza ti prende dentro, ti logora». E aveva scelto di non lasciare spazio ai rimpianti, dicendo “ti voglio bene” quando era il momento. Aveva cercato abbracci, aveva voluto che i suoi fratelli sapessero chi fosse davvero, anche fuori dalla famiglia, dove forse riusciva a farsi conoscere di più.
Massimo ha lasciato parole forti, essenziali: «Non mi interessa essere ricordato per quello che ho fatto, ma per quello che sono».
Ed è per questo che la sua testimonianza trova spazio qui, oggi, nel rispetto del suo desiderio, in occasione della XXIV Giornata Nazionale del Sollievo, istituita nel 2001 con direttiva del presidente del Consiglio dei Ministri per «promuovere e testimoniare, attraverso idonea informazione e tramite iniziative di sensibilizzazione e solidarietà, la cultura del sollievo dalla sofferenza fisica e morale in favore di tutti coloro che stanno ultimando il loro percorso vitale, non potendo giovarsi di cure destinate alla guarigione».
Massimo ha insegnato che anche nel tempo breve che resta, si può vivere con pienezza. Che la fragilità può diventare forza.
E che un sorriso condiviso, anche quando fa male, è il dono più prezioso.
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