Presa in carico dalla Fondazione nel progetto di... (Leggi tutto)
di Vincenzo Barbante
presidente Fondazione Don Gnocchi
Il mese di dicembre, tradizionalmente legato alla festività del Natale, si apre con due eventi significativi: il giorno 3 si celebra la Giornata internazionale delle persone con disabilità e a seguire, il giorno 5, la Giornata internazionale del volontariato.
Come spesso capita, queste due ricorrenze si prestano a due possibili esiti. Da un lato vi è la retorica ricorrente di stampa e televisioni che per un giorno trovano un’opportunità per riempire le proprie pagine o palinsesti di contenuti e testimonianze ad effetto, alte riflessioni fatte da “esperti”, più o meno titolati, del settore e degli immancabili pronunciamenti di politici in cerca di visibilità, con le loro compiacenti manifestazioni di interesse e tante promesse.
Dall’altro vi sono i reali protagonisti che vedono emergere periodicamente all’attenzione generale la propria esperienza di vita: i primi ricordando che questa ricorrenza che il mondo celebra un giorno all’anno, loro la vivono fra mille difficoltà tutti i giorni; i secondi che accogliendo l’alto apprezzamento generale della comunità civile, si interrogano sul perché lo Stato appesantisca con eccessi di burocrazia e di norme ciò che dovrebbe essere sostenuto e incentivato, vedi la cosiddetta riforma del terzo settore o le complesse disposizioni che regolano il Servizio Civile Universale. Non solo tanto si dice o si promette e poco si fa, ma sembra quasi che si creino apposta degli ostacoli. Mentre prendo atto di tutto questo, nella speranza di un auspicabile cambio di rotta, non posso che suggerire un diverso approccio da riservare a queste realtà.
Il mondo della disabilità è un mondo complesso e articolato. Merita attenzione e rispetto, grande sensibilità nella lettura delle situazioni e, soprattutto, alle condizioni delle singole persone e ai loro progetti di vita. Non si possono, né si devono calare su di loro modelli pensati a tavolino ideologicamente ispirati. Faccio un esempio. Si parla molto di favorire l’inclusione sociale dei disabili o la promozione di progetti di autonomia abitativa. Questo è auspicabile, così come l’abbattimento delle barriere architettoniche o di altro genere. Ma ciò non può andare a scapito di altre realtà che pure hanno le loro ragioni d’essere, come le comunità socio residenziali, destinate ad accogliere e accompagnare quelle situazioni più delicate che richiedono altre forme di sostegno e accompagnamento, non solo terapeutico-riabilitativo, ma anche comunicativo e relazionale.
Forme di vita comunitaria in strutture residenziali o di autonomia abitativa non sono alternative fra loro, ma vanno colte come delle opportunità da offrire a seconda dei vari progetti di vita individuali. Le prime non vanno demonizzate come ghetti o prigioni, come certa propaganda oggi denuncia, promuovendo solo le seconde che in alcuni casi rischiano di diventare delle vere e proprie celle di isolamento.
L’attenzione, lo ripeto, va posta ai progetti di vita degli interessati e delle loro famiglie. A queste ultime poi, va offerta e non imposta la possibilità di prendersi cura dei loro cari, figli o fratelli che siano, ma non va scaricato per legge interamente su di loro l’onere dell’assistenza, non solo economico, perché, non dimentichiamolo, anche loro sono portatori di un proprio progetto di vita. E qui, come si può comprendere, il discorso si fa lungo e complesso.
Anche in questo ambito, come per il tema dell’accompagnamento degli anziani, soprattutto quelli non autosufficienti o affetti da gravi patologie neurodegenerative, occorre avere, per rispetto delle varie situazioni, meno slogan e più umile discernimento su come sia bene affrontarle.
Il gruppo delle ragazze e dei ragazzi in servizio civile quest'anno nei Centri della Fondazione Don Gnocchi
Non meno rispetto e attenzione vanno riservati all’ambito del volontariato, che va promosso e tutelato, non tanto perché utilitaristicamente spesso finisce per sopperire alle carenze di alcuni ambiti di servizio che il Paese dovrebbe coprire come l’assistenza, l’educazione, l’integrazione sociale o la gestione delle emergenze, ma soprattutto per il valore intrinseco che manifesta e realizza: la cura del bene comune, la dedizione al bene comune. Inutile dire la ricchezza educativa che può rappresentare per un giovane, per esempio, vivere un’esperienza di volontariato in un contesto di cura e accompagnamento di persone disabili o anziane.
Lo vedo per i giovani che vivono l’anno di Servizio Civile Universale in Fondazione. Si tratta, e sono le loro testimonianze a dichiararlo, di un’"esperienza forte", che "ti cambia la vita", un anno di crescita e maturazione che vorrebbero che anche altri potessero fare. Un anno di incontri con una umanità, anche fragile, ma che porta alla ribalta storie di vita, dentro le quali la fragilità fisica, la disabilità, finisce in secondo piano, mentre emergono nomi, volti, percorsi esistenziali straordinari e si scoprono accanto a loro altre personalità, che con la loro professione, non solo assistono e curano, ma scrivono pagine di storia che nessuno forse leggerà mai, fatte di gesti quotidiani di servizio, di “compassione”, di condivisione.
Si tratta di una cronaca quotidiana che non trova ribalta e, purtroppo, nemmeno un giusto riconoscimento. Una cronaca che narra di come il lavoro in ambiti come questo, unendo competenza e dedizione, realizza qualcosa di talmente elevato, da poterlo considerare sacro.
Un momento di attività con i volontari in uno dei Centri della Fondazione Don Gnocchi
In questo millennio si parla di un Paese che guarda al futuro con poca fiducia, disincantato e tradito dalle mille promesse non mantenute di chi ci governa, e tale sentire viene consegnato e trasmesso alle giovani generazioni. Tutto questo non è corretto. L’arrogante incoerenza e l’ipocrisia di pochi non devono prevalere sulla nascosta ma ben più ampia opera di quanti vivono quotidianamente, non solo facendo il proprio dovere, ma trasformando l’ordinario in straordinario con il proprio spirito di “sacrificio”, fatto di costanza, passione, creatività.
Se il volontariato ci richiama valori come la gratuità e l’impegno personale, la disabilità ci riporta alla coscienza la comune condizione di fragilità e allo stesso tempo l’esistenza di barriere materiali e culturali che attendono ancora oggi di essere superate. Per fare questo, non occorrono chissà quali strumenti o rivoluzioni, ma solo vivere la propria quotidianità perseguendo e attuando valori in cui crediamo e che ci fanno stare bene, con quello del bene comune, anche se questo può significare in alcuni contesti andare controcorrente. Occorre oltrepassare il confine del silenzio, dell’indifferenza, del pregiudizio, del sospetto, e percorrere la strada del comunicare, del condividere, del costruire progetti comuni, collaborando insieme per consentire ad ogni progetto di vita di realizzarsi in un contesto di pari opportunità e autentica integrazione.
I protagonisti di uno degli eventi in Fondazione nella Giornata internazionale delle persone con disabilità
Mi rendo conto che queste possono sembrare belle parole, ricche solo di speranza. Siamo ormai prossimi al Natale e, se posso permettermi una considerazione un po’ ardita, penso che se esisteva nell’immaginario umano un confine, una distanza incolmabile, quella era tra il divino e l’umano. Ebbene, la nascita di Gesù ci testimonia che tutto questo è stato ampiamente oltrepassato. In Gesù Dio si è fatto vicino. Il Verbo, la Parola “Io sono con voi” si è fatta carne, ha dato dignità alla nostra fragilità, si è presa cura della nostra fragilità. Non tutti erano disposti ad accoglierla e molti non lo sono ancora oggi, ma questo non ha impedito a Dio di realizzare il suo intendimento.
Ogni creatura umana è sacra e porta in sé il sigillo dell’eternità. A ciascuno spetta il compito di non disperdere, ridurre, mortificare questa dote. E per fare questo non occorre altro che vivere la propria condizione in pienezza, al servizio del bene.
Don Carlo Gnocchi nel 1941, scriveva a un giovane in ricerca vocazionale, Pietro Rampi, «il medico è il più vicino all’apostolato del sacerdote» (Pietro Rampi poi divenne sacerdote e per decenni si occupò dei disabili dell’Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone). Così comprendiamo le parole che monsignor Battista Montini rivolse ai mutilatini del Centro “S. Maria della Pace” di Roma nel Natale del 1954: «Cristo è venuto sulla terra per togliere la solitudine dell’uomo. Voi bambini mutilati, voi bambini poliomielitici, nella vostra sofferenza sarete spesso tentati di sentirvi soli. Sappiate invece che ci sarà sempre Gesù con voi nella persona di quelli che rappresentano la carità della Chiesa».
È questa la nostra eredità, quando celebriamo il Natale: concorrere a dare un volto alla speranza.
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