Il piccolo ecuadoregno, inserito all'Istituto di... (Leggi tutto)
Si celebra in tutto il mondo il 29 ottobre la Giornata contro l’ictus cerebrale, che rappresenta la terza causa di morte in Italia e nei Paesi sviluppati ed è tra le prime cause di disabilità. L’ictus cerebrale, ovvero l’interruzione dell’irrorazione sanguigna del cervello, fa registrare ogni anno nel nostro Paese 2-3 casi ogni 1.000 abitanti, ovvero circa 200 mila casi (fonte: Associazione A.L.I.Ce Italia O.D.V.) ed è, come afferma Mauro Silvestrini, presidente dell’Italian Stroke Association una patologia “tempo-dipendente”, il cui esito positivo, in altri termini, dipende dalla tempestività con cui si interviene. Per questo, lo slogan della Giornata mondiale 2021 è “Minutes can save lives”, i minuti possono salvare vite umane.
Se la tempestività dell’intervento è di vitale importanza nella fase acuta, non lo è da meno nel percorso riabilitativo. Un terzo circa delle persone che sopravvivono all’ictus subisce forme gravi di disabilità che non le rendono autonome, mentre un altro terzo deve affrontare una disabilità lieve o moderata che in molti casi permette loro di tornare al proprio domicilio in modo parzialmente autonomo; l'ultimo terzo, infine, riesce fortunatamente a tornare a casa in piena autonomia.
«Sono nell’ordine di qualche migliaio i pazienti post ictus che abbiamo ricoverato nei nostri reparti di degenza di riabilitazione intensiva ospedaliera e trattato a livello ambulatoriale nell’ultimo anno – spiega Irene Aprile, neurologa, responsabile del Centro "S. Maria della Provvidenza" di Roma e direttrice del Dipartimento di Riabilitazione Neuromotoria della Fondazione Don Gnocchi -. Per quanto riguarda il paziente grave, prima inizia il percorso riabilitativo in strutture come le nostre, dove l’approccio è globale e multidisciplinare, meglio è ai fini della sua ripresa. Teniamo conto che l’ictus – prosegue Aprile – è la prima causa di disabilità permanente negli adulti e il paziente che ne è stato vittima è estremamente complesso: i trattamenti riabilitativi devono iniziare tempestivamente non solo per il recupero degli aspetti motori, come il cammino o la funzionalità dell’arto superiore, ma anche per gli aspetti cognitivi, il linguaggio, la deglutizione, la condizione psicologica, le relazioni famigliari, la vita sociale e lavorativa... Non sempre infatti il paziente recupera completamente e torna ad essere quello di prima; spesso l’ictus lascia delle disabilità permanenti con cui il paziente deve convivere. Per questo è di fondamentale importanza che inizi prima possibile la riabilitazione e in strutture specializzate».
Tempestività di intervento, presa in carico globale e approccio multidisciplinare e, in grande sviluppo, l’apporto delle nuove tecnologie e della robotica: queste le “armi” oggi a disposizione per sconfiggere l’ictus e i suoi esiti invalidanti.
Buona parte delle palestre di riabilitazione dei Centri "Don Gnocchi" di tutta Italia sono oggi dotate di apparati robotici per la riabilitazione in particolare dell’arto superiore di pazienti con esiti di ictus.
Sempre con l’apporto delle nuove tecnologie, causa anche il lockdown imposto dall’emergenza Covid, grande impulso ha avuto la teleriabilitazione e, in qualche caso, la riabilitazione robotica al domicilio del paziente, per garantire la continuità dei trattamenti anche in caso di impedimento del paziente a raggiungere la struttura.
E poi ancora esoscheletri e strumentazioni sempre più sofisticate, frutto di collaborazioni con enti esterni, come l’Istituto Italiano di Tecnologia, la Scuola Superiore S. Anna di Pisa, il Campus Biomedico di Roma, altre Università italiane e aziende produttrici di dispositivi robotici… Da questo punto di vista, la tecnologia al servizio della riabilitazione post ictus sta veramente facendo passi da gigante.
Senza mai dimenticare, come ricorda ancora Irene Aprile che «lo scopo ultimo del nostro intervento è riportare il paziente al massimo recupero funzionale possibile e alla sua vita sociale, famigliare e lavorativa: riabilitare per noi non significa solo curare la funzione, ma curare la persona nella sua interezza».
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